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mercoledì 15 febbraio 2017

La matematica e il pranzo del venerdì


La matematica è sempre stata la mia bestia nera. Un po’ per indole, un po’ per una probabilissima atrofia delle sinapsi del calcolo (esistono?), un po’ perché la mia adorata maestra elementare, la maestra Lina, insegnandomi l’amore per lo scrivere, ha trascurato di inculcarmi quello per i conti, fatto sta che mi ritrovai al liceo scientifico a litigare quotidianamente con le operazioni più elementari, tanto da meritarmi un quattro alla fine del terzo e una bella bocciatura a settembre, onta sulla mia immacolata carriera scolastica fatta di un dignitoso impegno minimo sindacale con rendimento alto. Questo, però, mi fece conoscere il professor Soldini, l’insegnante che mi diede ripetizioni estive e mi tirò fuori dal pantano matematico in cui ero finito.
Superato brillantemente l’esame di riparazione settembrino, i miei decisero che sarebbe stato opportuno continuare a usufruire dell’aiutino di Soldini, così i miei venerdì pomeriggio, per gli ultimi due anni di liceo, furono dedicati alle ripetizioni di matematica. Restavo a Macerata alla fine delle lezioni e, alle 15,00, andavo a Santa Croce, dove abitava il mio professore di ripetizioni, a farmi le mie due ore di full immersion tra derivate, integrali, parabole, iperboli e tangenti.
Il venerdì era per me un giorno speciale. Già che la sera, al rientro a casa, dovevo fare in fretta e furia per arrivare in tempo a Radio Veregra perché alle 18,45 iniziava il mio programma settimanale, Hot Dog, che non era l’unico che facessi ma era quello a cui tenevo di più. Significava scendere dalla corriera alle sei e un quarto, correre a casa, caricarsi in spalla la tracolla dove tenevo i dischi che avevo messo in scaletta (una buona metà dei pezzi che mettevo provenivano dalla mia discoteca privata) e arrivare trafelato in radio appena in tempo per il cambio di studio con Nicola Vacca che mi precedeva in onda.
Però prima c’era il pomeriggio di studio della matematica che, se all’inizio era una specie di castigo divino, gradualmente era diventato un piacere. Lo era diventato certamente grazie a Soldini che stava incredibilmente riuscendo a farmi capire la materia e, udite udite, a farmici divertire. Ma la parte più bella erano quelle paio d’ore di assoluta solitudine in giro per Macerata, in attesa che venisse l’ora delle ripetizioni. In un primo momento avevo iniziato a mangiare in refettorio, dai Salesiani, ma non lo gradivo, sia perché non è che si mangiasse divinamente, ma anche perché era una specie di prolungamento dell’orario scolastico e la cosa mi infastidiva. Così, d’accordo coi miei, decisi di trovare un posto dove mangiare fuori senza spendere un capitale.
Trovai una piccola trattoria in corso Matteotti. Era piccolissima, poco più che un corridoio. Appena entravi c’era, sulla sinistra, il bancone del bar, uno di quelli anni ’70 con gli inserti in alluminio anodizzato color oro. Proseguendo lungo lo stretto locale si accedeva alla sala da pranzo, dove il vano si allargava leggermente per fare spazio a due file di piccoli tavoli addossate alle pareti. Al centro del muro sinistro c’era l’ingresso della piccola cucina dalla quale provenivano profumi deliziosi. Appena ci entrai, la prima volta, trovai al banco una ragazza poco più grande di me. Io avevo più o meno sedici anni e lei forse venti o ventidue. Alta, magra magra, bionda bionda e riccia riccia, con gli occhiali grandi di finta tartaruga come andavano di moda allora. Mi accolse con un sorriso e, alla mia domanda se potessi pranzare, mi fece accomodare a un piccolo tavolo singolo in fondo alla sala. La piccola trattoria era gestita da una famigliola maceratese che, col tempo, imparai a conoscere. Erano padre, madre e due figlie, la seconda un po’ più piccola di quella che avevo conosciuto per prima. Erano gente gentilissima e molto aperta, e feci presto a fare amicizia con loro. La trattoria, all’ora in cui arrivavo io, non era mai troppo piena e in breve presi una tale confidenza che, forse anche per la mia età molto giovane che inteneriva i due genitori, arrivai a pranzare al loro tavolo con loro, trovando un calore familiare che non mi sarei mai aspettato pranzando fuori casa. Era una sensazione piacevole, pranzare con gente cordiale che ti fa sentire a casa, con la televisione che trasmetteva Raffaella Carrà che contava i fagioli nel vaso. Però forse non era esattamente quello che cercavo.
Probabilmente fu proprio questo che, dopo molti mesi in cui il mio pasto alla trattoria di corso Matteotti era diventato routine, decisi di staccare e andarci sempre meno. In realtà amavo molto la mia solitudine del venerdì. Mi permetteva di pensare, di fantasticare, e il mio camminare per le strade di Macerata col bavero del giubbotto di pelle alzato e i capelli lunghi agitati dal vento, mentre facevo la strada che da viale don Bosco arrivava a via Giuliozzi, a Santa Croce, dall’altro lato della città, mi faceva sentire tanto rock. Così trovai un altro posto dove mangiare, un ristorantino che faceva anche da pub serale all’angolo tra via Roma e corso Cavour. Lì mangiavo davvero solo ed era decisamente più triste. Ma si sa, a sedici anni, in piena adolescenza, un pizzico di maledetta tristezza leopardiana ci sta tutta.
Ogni tanto tornavo a prendermi un primo alla trattoria del centro, ma non mangiavo più al tavolo dei proprietari. Probabilmente anche loro avevano capito la mia necessità di distacco, però la cosa mi creava una specie di magone, così smisi proprio di andare e alla fine del quinto liceo pranzavo solo in via Roma. Però il ricordo della cotoletta con le patatine che facevano apposta per me e quel calore da famiglia trovata per caso che trovai in quel locale ancora lo porto vivo, e a volte mi pare ancora di sentire gli odori, quei profumi lontani di una bella giovinezza spensierata.
                                      
Luca Craia

mercoledì 1 febbraio 2017

Enzo Bassi, un Montegranarese – di Stella Franceschetti



Ripubblico con piacere questo brano tratto da un quaderno di Stella Franceschetti, che lei stessa mi ha donato autorizzandomi a servirmene per questo blog, e questo passaggio, la storia di Enzo Bassi, cui è intitolata la via sotto piazza Mazzini, dove era la sede di Radio Veregra e dove tanto tempo ho passato da ragazzo, mi ha indotto, come era nell’intento dell’autrice, a riflettere. La storia la conoscevo perché me la raccontò anni fa mio nonno, che Enzo lo conosceva bene. Mio nonno, repubblicano integerrimo, me la raccontò esattamente così, come l’ha riportata Stella dal racconto preciso della sorella di Enzo, Ivana. L’ho pubblicata tempo fa su questo blog e ora lo rifaccio perché, oggi più che mai, credo dovremmo conoscerla, specie le giovani generazioni. Viviamo in un tempo in cui si cerca di mettere gli uomini l’uno contro l’altro, in una guerra tra poveri che non avrà mai un vincitore, tempi in cui l’odio è a uso del potere, tempi in cui si sta perdendo il senso di appartenenza, di popolo, di Patria. Poiché la storia ha toccato in maniera così drammatica la nostra città, e non possiamo dire che il racconto di Ivana Bassi sia inventato, allora cerchiamo di farla conoscere questa pagina triste della nostra città, perché i giovani traggano, per quanto possibile, l’insegnamento che la storia può e deve dare. Non ho grandi speranze. Ma non voglio arrendermi all’imbarbarimento della nostra civiltà.

Luca Craia


Nato il 4 ottobre 1922, nel maggio del 1942 era partito per Roma dove aveva preso servizio presso la caserma Macao del III Genova Cavalleria Dragoni.
Trasferito in Piemonte a Cuneo e a Carù, fu mandato poi in Francia, prima a Nizza e a Cape d’Antibes e infine a Mentone. Subito dopo l’armistizio, con il commilitone e compaesano Graziano Medori, riuscì a raggiungere Milano. Soccorsi entrambi e ospitati da una famiglia milanese che aveva perso un figlio in guerra, furono aiutati a disfarsi della divisa, rivestiti con abiti civili e fu regalata loro anche una bicicletta per affrontare, con un minimo di sollievo, il lungo viaggio di ritorno. Purtroppo, però, dovendo passare per strade secondarie, accidentate, tra campi e viottoli, la bicicletta si ruppe quasi subito e dovettero proseguire a piedi. Arrivarono in paese dopo 35 giorni di cammino, il 12 ottobre, festa di San Serafino, santo paesano, rischiando più volte di essere presi.
Per prudenza, non conoscendo la situazione, si diressero nella casa di Graziano Medori, che abitava in campagna.
Un fratello di Graziano, più tardi, riaccompagnò Enzo a casa sua, dove finalmente, alle tre di notte, potè riabbracciare la madre, il padre e la sorella Ivana.
Magro, coi capelli resi chiarissimi dalla lunga esposizione alle intemperie la madre, quasi incredula, volle accertarsi che quello era proprio il figlio, facendosi mostrare una piccola voglia che aveva all’interno di una gamba.
Nonostante i continui manifesti che intimavano ai giovani di presentarsi per l’arruolamento nell’esercito fascista repubblicano, Enzo rimase nascosto per qualche mese in casa. Un giorno giunsero in paese alcune camionette piene di repubblichini, alla ricerca di alcuni prigionieri inglesi fuggiti dal campo di concentramento di Fermo e qualcuno avvertì il comandante che c’erano in paese anche alcuni giovani nascosti per non arruolarsi. Enzo, Ninì Petrini e Serafino Conti scapparono insieme verso la campagna, nella speranza di raggiungere il fiume Ete, dove era più facile trovare nascondigli. Mentre attraversavano di corsa un tratto di strada scoperta furono raggiunti da alcune raffiche di mitra. Enzo Bassi fu colpito a morte, Ninì Petrini fu preso prigioniero e solo Serafino Conti riuscì a sfuggire alla cattura.
Era il 14 marzo 1944.
Tutto il paese prese parte al funerale di Enzo e alla sua memoria la cittadinanza dedicò una via.

da “La fine del tempo delle favole” di Stella Franceschetti – collana I quaderni di Stelletta

sabato 17 dicembre 2016

Il dolce di Natale


Il rito del Frustingo cominciava una mesata prima di Natale, quando nonna andava da Mimi, il negozietto di generi alimentari, pieno di profumi e leccornie, che stava proprio di fronte casa nostra, a ordinare gli ingredienti. Perché, per fare un frustingo come si deve, occorrono ingredienti di primissima qualità. E Mimi era l’unica spacciatrice di queste prelibatezze. Prima di tutto i fichi secchi, poi i canditi, le noci, preferibilmente di Sorrento. Una volta arrivato tutto l’occorrente si riuniva la congrega delle donne.
Infatti il frustingo è un dolce che va fatto in gruppo, dove in genere c’è la specialista che conosce esattamente le dosi per farlo davvero speciale. Le altre donne fanno il lavoro manuale ma la specialista detta le istruzioni, le dosi, i ritmi di lavoro. A casa mia si riunivano le donne del vicinato: nonna Peppa, Marì de Baffì, la stessa Mimi, Pia, Fidarma. Poi c’era la specialista, Eda de Vastò, che in quell’occasione diventava capa capessa, leader indiscusso della congrega. Nonostante fossero anni e anni che tutte queste donne assistevano Eda nella preparazione del Frustingo, nessuna di loro era in grado di usurparle il ruolo di specialista.
Così, la settimana prima di Natale, in un pomeriggio convenuto, la congrega si riuniva, in genere a casa mia perché era quella con la cucina più grande, per preparare il frustingo comune al vicinato. La cucina diventava laboratorio alchemico e tutta la magia di quelle mani sapienti, che impastavano, sminuzzavano, mantecavano, versavano davano vita a un momento di pura poesia, fondamentale nella creazione dell’atmosfera natalizia tanto quanto presepe e albero.
Una volta pronto l’impasto veniva versato nelle teglie d’acciaio che ogni donna aveva portato con sé. Queste teglie dovevano andare in forno, ma non il forno di casa, perché per cuocere il frustingo ci vuole un forno potente. Una volta c’era quello a legna ma già all’epoca di cui vi parlo non ce l’aveva più nessuno. Per cui le donne, in processione, portavano ognuna la sua teglia al forno di Americo, poche decine di metri lontano. Lì, la mattina dopo, il rito del frustingo, questa magia natalizia tutta nostra, aveva il suo compimento. L’aria del centro storico si riempiva del suo odore dolciastro ed era Natale.
Non rimaneva che portare a casa, ogni donna alla sua, il dolce ben cotto e difenderlo per qualche giorno dagli attacchi di mariti, figli e generi. A casa mia nonna lottava a spada tratta con babbo che difficilmente sapeva resistere. Il frustingo doveva maturare qualche giorno, una volta cotto. Così era pronto giusto giusto per la vigilia di Natale quando, durante la tombola del dopo cenone, si inaugurava tagliando la prima fetta. 

Luca Craia

venerdì 9 settembre 2016

Teo l'Americano



Facevo collezione di francobolli. Mia mamma era ragioniera in un calzaturificio e mi metteva da parte le buste della corrispondenza che riceveva. Così iniziai a mettere da parte i francobolli del periodo. Evidentemente era un passatempo di moda all’epoca per cui era facile trovare altri ragazzi collezionisti disposti allo scambio dei doppioni. Così la collezione cresceva. Tramite conoscenze ero entrato in contatto epistolare con un signore italiano, Renato, che aveva fatto la campagna di Russia e si era sposato in Bulgaria non tornando più in Italia. Renato mi mandava di sua sponte e con piacere francobolli dell’Unione Sovietica, per la qual cosa rischiava anche parecchio essendo vietato oltre cortina quel tipo di attività. Grazie a lui ora mi ritrovo un bell’album pieno di splendidi francobolli dell’URSS che hanno anche un discreto valore.
A Montegranaro se parlavi di filatelia non potevi prescindere da Teo l’americano, il marito di Emilia Senzacqua. Francamente non ricordo come finii a casa di Teo, fatto sta che ci finii. E quella fu una delle esperienze fondamentali della mia vita. Matteo, Teo per gli amici, era un omone col pizzo canuto, polacco trapiantato negli USA, che s’era trovato appunto in America giusto giusto per fare la Seconda Guerra Mondiale. Era imbarcato nel Pacifico come cuoco quando il suo incrociatore era stato centrato e affondato da un siluro giapponese. Il suo racconto proponeva il siluro che attraversava tutta la cucina della nave portando con se la sua tibia e il suo perone, lasciandolo con un brandello di carne al posto della parte inferiore della gamba destra. La chirurgia americana dell’epoca era evidentemente molto più avanti di quella italiana anche contemporanea in quanto gli ricostruirono la gamba intorno ad un tubo di metallo. Certo non correva i cento metri ma claudicante camminava per casa.
Era un uomo burbero come pochi, gigantesco, con quell’accento misto tra anglosassone e slavo e la voce cavernosa. Diciamo che la prima impressione fu terrificante. Poi lo conobbi e lo amai, molto, come si può amare un nonno. Teo cucinava da dio, cose strane che io non avevo mai neanche sentito nominare. A quell’epoca, parlo della fine degli anni ’70, sfido chiunque ad aver saputo cos’era il ketchup. A casa sua mangiai bacon and eggs e mamma rabbrividì solo a sentire che cos’era, bistecche alla Bismarck, innumerevoli insalate con salse che andavano dalla maionese al tabasco. Diciamo che, se oggi amo tanto stare ai fornelli, lo devo probabilmente a lui.
Collezionava francobolli e monete. Aveva una stanza, di fronte alla cucina, tappezzata di scaffali dove teneva le bustine dei francobolli. Infatti non usava gli album ma li teneva sciolti in piccole buste di carta oleata. E me ne ha regalati parecchi, che aveva doppi, ma per me erano davvero un tesoro: francobolli del Regno d’Italia, della Germania pre-nazista con sovrastampato il valore centuplicato durante la depressione, dei vari paesi europei prima della guerra, degli USA e dell’America latina. Un tesoretto, se non da un punto di vista economico, sicuramente da quello storico. Per non parlare di quello affettivo.
Con Teo iniziai ad interessarmi di calcio. Fino allora non me ne fregava niente e quando i miei amici o i compagni di scuola si accapigliavano per il pallone la cosa mi lasciava del tutto indifferente. Ma era il 1978 e c’erano i mondiali in Argentina. Premesso che, quando andavo da lui ci rimanevo tutta la mattinata o tutto il pomeriggio, durante i mondiali, se giocava la Polonia (e quell’anno giocava, hai voglia se giocava) tutti zitti davanti alla TV. All’inizio mi annoiavo e non capivo il gioco, così lui pazientemente mi spiegava le azioni e le regole, tanto che mi appassionai. Ci siamo visti insieme tutti le partite dei mondiali della Polonia e dell’Italia, lui seduto sulla sua poltrona di fronte alla finestra che dava sulla piazzetta dell’erbe ed io appoggiato sul tavolo dal piano di vetro che racchiudeva banconote di tutto il mondo.
Teo morì negli anni ottanta. La sua casa negli anni 2000. Ora c’è una piazzetta al suo posto. Carina. Ma manca un pezzo della storia di Montegranaro e anche un pezzo della mia storia personale. Lì nessuno appenderà a dicembre la grande slitta di Babbo Natale con tanto di renne tutta luminosa e tanto americana.

Luca Craia