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lunedì 2 novembre 2015

La fine del mondo


Erano le 7 e 35 di sera quando la musica del Tg1 interruppe la trasmissione di Carlo Conti e la faccia di Giorgino fece capolino dal televisore, più pallida e smunta del solito, per annunciare che da lì a tre giorni ci sarebbe stata la fine del mondo. Si aprirono così i tre giorni più strambi della storia, anche perché dopo quelli non ce ne sarebbero stati altri.
I prudenti in auto toccarono i 200 all’ora.
Quelli che andavano sempre veloce si schiantarono.
I sinceri cominciarono a mentire, ma non se ne accorse nessuno.
I mentitori cominciarono a dire la verità e presero un sacco di botte.
Gli sfaticati si misero a lavorare e fecero un sacco di danni.
I mariti fedifraghi tornarono dalle mogli con la coda tra le gambe.
Le mogli tradite andarono finalmente a letto col postino e i mariti le trovarono nel mezzo dell’amplesso.
Le vergini persero la verginità in massa, e parecchie volte.
Quelli a dieta svaligiarono i supermercati.
I ladri restituirono la refurtiva.
I derubati regalarono la refurtiva ai poveri.
I poveri la rivendettero ai ladri.
I pescatori andarono a sciare, gli alpinisti a nuotare ma annegarono.
I peccatori andarono a confessarsi e non trovarono il prete.
I politici corrotti si pentirono e confessarono tutto.
I politici corrotti confessarono tutto e furono perdonati.
I politici corrotti furono perdonati e poi lapidati sulla pubblica piazza.
Gli sfaticati vennero a pulire quello che restava dei politici corrotti.
I soldati disertarono in massa e finalmente ci fu la pace nel mondo.
I dittatori diedero la libertà ai loro popoli.
I popoli liberati impalarono i dittatori.
Gli ex fumatori ripresero in massa a fumare.
E il mondo finì così, in un’immensa nube di fumo di sigaretta.

Luca Craia

sabato 27 dicembre 2014

Non era il suo letto



Si alzò per andare ad urinare che erano le tre in punto. Non accese la luce, neanche aprì gli occhi, tanto la strada dal letto fino alla tazza la conosceva a memoria. Appoggiò la mano al muro dietro il water tanto per prendere la mira ad occhi chiusi, fece quel che doveva fare ascoltando il rumore del suo prodotto che cadeva in acqua che testimoniava la sua buona mira anche a buio, tirò lo sciacquone e girò su se stesso in direzione del letto cercando di non svegliarsi del tutto per ripiombare tra le braccia di Morfeo o chi per lui senza neanche accorgersi della minzione e della passeggiata che essa aveva richiesto. Si sedette sul bordo del letto e si stese supino sotto il piumone. Ma qualcosa non tornava.
Sentiva la testa troppo bassa rispetto al solito e gli avvallamenti del vecchio materasso non corrispondevano. Ebbe la netta impressione che quello non fosse il suo letto. Anzi, ne fu sicuro. Allungò la mano in cerca dell’interruttore della lampada da comodino ma trovò il nulla, il vuoto. Non c’era l’interruttore, non c’era la lampada, non c’era il comodino. Fece per alzarsi ma un peso inconsistente sul petto gli impedì di mettersi a sedere come era nelle sue intenzioni.
Sempre più agitato cercò dalla parte opposta l’altro interruttore, quello a peretta che pendeva dal centro della spalliera del letto e che comandava la luce grande. Non c’era, l’interruttore, e non c’era nemmeno la spalliera del letto. Dietro alla sua testa anziché il rassicurante consueto pezzo di legno scolpito da una macchina a controllo numerico c’era il vuoto. La sua mano indugiò a mezz’aria alla ricerca di qualcosa di solido ma non trovò niente.
Cominciò a sudare freddo, freddo intenso e goccioline di sudore che colavano dalla fronte verso le orecchie. Lacrime cominciarono a stillare dai bordi dei suoi occhi spalancati nel buio pesto di quella che, era certo, non era la sua camera da letto. Terrore e ansia e la consapevolezza di trovarsi in un luogo sconosciuto gli annebbiarono i pensieri, la testa prese a girare, le mani a tremare, e un dolore acuminato gli trafisse la spalla e il petto sempre più oppresso da quel macigno invisibile e intangibile. Il respiro si fece corto, sempre più corto, fece per gridare aiuto ma gli uscì solo un rantolo soffocato.
Lo trovarono così, supino sul letto, con gli occhi sbarrati, steso al contrario, coi piedi sul cuscino e la testa in fondo al suo vecchio letto

venerdì 12 dicembre 2014

Giustì, la bicicletta e la macchina - di Luca Craia




Giustiniano, per gli amici Giustì, era un padre di famiglia di una famiglia numerosa. Non numerosissima per quegli anni – nell’immediato dopoguerra avere cinque figli era la norma – ma comunque pochi non erano e facevano un gran baccano. Oltretutto si viveva in poco più di tre stanze di una vecchia casa e i ragazzi erano abituati a vivere, mangiare, dormire ammucchiati di qua e di là. È facile immaginare quanto fosse frequente, per non dire continuo, litigare, strattonarsi, spintonarsi, farsi ogni sorta di dispetti tra cinque fratelli la cui età variava dagli otto ai quattordici anni.
Giustì andava a lavorare fuori paese. Ogni mattina prendeva la sua vecchia bicicletta, che teneva meglio della moglie, e pedalava per circa due chilometri prima di arrivare in fabbrica. C’era abituato, ma d’estate era caldo pedalare e d’inverno, sotto la pioggia, tra la neve, non era poi così piacevole. E gli anni cominciavano a sentirsi. Guadagnava bene, Giustì, da operaio specializzato con un’esperienza che gli veniva dal fatto di essersi messo a faticare in tenerissima età. Era tenuto in grande considerazione dal padrone che gli riconosceva uno stipendio di tutto rispetto. Così gli venne in mente un’idea e, senza dire nulla alla moglie, un giorno arrivò a casa all’ora di pranzo, si sedette al suo posto in silenzio, e ne informò la famiglia riunita intorno alla spianatura con la polenta fumante sopra.
“Ce compremo la machina” disse senza troppe sfumature mentre col cucchiaio raccoglieva un po’ di materiale giallo fumante condito coi grasselli del maiale. La moglie sgranò gli occhi e le cadde il cucchiaio. Ma non disse nulla. Il figlio più grande pensò di non aver capito e domandò, facendosi portavoce dello stupore del resto della famiglia:
- che si ditto, babbo? (che hai detto, batto?).
- So ditto che me vojo comprà la machina ( ho detto che mi voglio comprare la macchina).
- Allora so’ capito vè! (allora ho capito bene) disse la moglie.
- Perché, non te sta vene? (Perché, non ti sta bene?)
La moglie chinò la testa sulla polenta e non parlò più.
Ma scoppiò il parapiglia tra i figli. Carlo gridava “io me metto davanti!”, Maurizio replicava: “no! Davanti me ce metto io che so’ più grosso!”. “Davanti ce se mette le signore” sentenziò Mariarosa. Antonietta e Fabrizio, i più piccoli, cominciarono a disputarsi il posto dietro l’autista sul divanetto posteriore. La mamma piangeva sulla polenta. I due maschi più grandi cominciarono a spintonarsi, prima piano, poi sempre più forte e, in un attimo si ritrovarono aggrovigliati sul pavimento di mattoni tra insulti  e parolacce. I due più piccoli si presero per i capelli e cominciarono una gara a chi tirava di più. Mariarosa, la figlia di mezzo, corse in braccio alla madre a piangere in coro con lei.
Giustì finì la sua polenta con la sua solita flemma, senza muovere un muscolo, senza alzare lo sguardo dalla spianatura. Come se intorno a lui ci fosse la calma più serafica invece di una rissa furibonda si versò un bicchiere di vino e se lo bevette con la lentezza che meritava. Posò il bicchiere, prese il tovagliolo, si pulì bene la bocca, si alzò e battè forte i pugli sul tavolo, tanto forte che pareva un botto di capodanno. La rissa si bloccò, anzi, si congelò. I figli si voltarono verso il padre, la moglie e la figlia piangenti alzarono gli occhi verso di lui. E Giustì, con voce alta ma senza strillare, lo sguardo fermo, le mani incrociate sul petto sentenziò la sua decisione finale: “calete jò tutti!” (scendete tutti). Prese la sua bicicletta e tornò al lavoro.

giovedì 29 maggio 2014

Silenvolo



Sto imparando a planare.
Osservare da un punto di vista lontano
lo scorrimento dei gesti e delle parole.
Lasciare che tutto turbini indisturbato
e indisturbante della mia quiete aerea.
Quanto toccherò terra di nuovo
lo farò in un pianoro appartato,
non visto, silenzioso, planando,
per poi riprendere quota, trainato
da questa nuova voglia di leggerezza.
E voi contorcetevi pure
per cercare di scorgermi tra i cumuli.
Vedrete solo una sagoma scura
perché dietro di me c’è il sole.