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sabato 31 dicembre 2016

Ricostruire senza progetto. Quale futuro in Valnerina?



A L’Aquila ci sono ancora undicimila sfollati, a otto anni dal terremoto che ha distrutto gran parte del capoluogo abruzzese. E L’Aquila, non me ne vogliano gli amici dei piccoli centri colpiti dall’ultimo terremoto, non è Ussita, Visso, Castelluccio. L’Aquila è un capoluogo di Regione, una città grande e importante, con una florida economia industriale. Eppure, dopo tanto tempo, siamo ancora in alto mare. Ci sono stato a L’Aquila, recentemente. Il centro storico è spettrale, anche con i tentativi di recupero in corso.
Eppure per L’Aquila c’era un progetto. Era un progetto brutto, malfatto, malpensato e mal realizzato. Ma c’era, fin dai primi giorni dopo l’evento. L’idea balorda di Berlusconi di realizzare le cosiddette “newtown” fu messa in campo quasi subito. Era un’idea completamente sbagliata. Ma c’era un’idea. Oggi, per i paesi del centro Italia distrutti dal sisma, a quanto pare non c’è nemmeno l’idea.
La strada è fondamentale per far rinascere un posto. Un luogo inaccessibile muore. La statale della Valnerina doveva essere liberata immediatamente. Sono passati due mesi dalla scossa e non si è visto nulla o quasi. Visso è isolata dalla parte Umbra. Come può rinascere Visso così?
Qual è il progetto per i paesi dei Sibillini? Vero, c’è un decreto, ma il progetto non si vede. Cosa si intende fare? Ce lo dicano. Il tempo passa e la ferita continua a sanguinare. E non mettono nemmeno i punti di sutura. C’è il grande impegno di Vigili del Fuoco, Protezione Civile e volontari, ma non c’è l’idea precisa di cosa fare. Ci sono le sparate dei vari Della Valle che vogliono portare l’industria in montagna, ma non c’è una proposta per far ripartire l’economia autoctona, che funzionava benissimo anche senza mettersi a fare le scarpe.
Vorrei fare un augurio agli amici di Visso, di Arquata, di Castelluccio, di Castel Sant'Angelo e di tutti i piccoli centri feriti dal terremoto: che il 2017 porti un progetto e che si parta immediatamente con la sua realizzazione. Fino a oggi, solo parole al vento.

Luca Craia                                                                                     

martedì 20 dicembre 2016

Terremoto - La desertificazione della zona montana come stretegia politica.



Sembra ci sia un disegno preciso dietro la strategia adottata dal Governo (non distinguo tra quello di Renzi e quello di Gentiloni in quanto credo non ci sia nulla da distinguere) per gestire il post-terremoto nell’area montana. Può sembrare approssimazione, inettitudine ma, a guardar bene, forse c’è dell’altro. Le aree montane sono costose per lo Stato, molto. Un’area montana scarsamente popolata costa decisamente meno di una popolata densamente. Poi c’è la questione del Parco, i cui amministratori hanno sempre visto con poca indulgenza la presenza di insediamenti produttivi all’interno del territorio controllato dall’Ente. Infine ci sono i costi di ricostruzione, per i quali la matematica è semplice: meno gente che torna, meno case da ricostruire.
Ecco allora la strategia: portare la popolazione lontano e ritardare il più possibile ogni intervento diretto al ritorno della normalità. Le aziende non vengono aiutate a ripartire, non vengono allestiti siti alternativi per i servizi pubblici come scuole e ospedali, non si dà modo alla popolazione di rimanere, seppure in moduli abitativi provvisori.
Tutto questo tiene lontana dal luogo colpito dal sisma la gran parte della popolazione attiva, creando un danno enorme al tessuto sociale, danno che, più si va avanti nel tempo, più diventa insanabile. È difficile pensare a un ritorno alla situazione precedente al terremoto per tanti piccoli centri, come Castelluccio o Ussita. Qualche probabilità in più ce l’hanno i Comuni che possiedono aziende manifatturiere, sempre che queste riescano a riprendere la produzione in loco. Pare comunque molto probabile che non si tornerà mai più alla situazione originale.
Nel frattempo assistiamo all’immobilismo quasi totale, o a interventi inutili e poco razionali. L’uso della forza lavoro pubblica per realizzare strutture che potrebbero benissimo essere messe in opera da aziende private locali è illogico. Dare incarico alle imprese locali farebbe ottenere il duplice vantaggio di liberare le forze pubbliche impiegandole in lavori più consoni, come l’urgente riapertura delle strade, in gran parte ancora impercorribili, e di dare spinta all’economia congelata dal terremoto. Sarebbe poi indispensabile la rapida riapertura dei centri di servizio, come le scuole e gli ospedali. E poi le unità produttive vanno fatte ripartire subito.
La favola degli imprenditori mecenati che vanno ad aprire aziende ex novo nelle zone terremotate è poco credibile. Aprire un’azienda in un periodo di crisi internazionale non ha senso, a meno che non si trasferisca un’unità produttiva da un luogo all’altro. Solo che, in questo modo, si tapperebbe una falla creandone una nuova, occupando mano d’opera in un luogo e disoccupandone altra nel luogo di origine. Assurdo. Diverso il caso di Diego Della Valle, il cui marchio è in controtendenza rispetto al mercato. Ma anche qui c’è un ragionamento incongruo: per aprire un laboratorio calzaturiero con manodopera non del settore serve tempo. E questo tempo non c’è.
Da qui tutta la mia preoccupazione per il futuro delle zone colpite dal sisma. La politica che si sta attuando e la solita politica dei proclami, delle telecamere e dei riflettori. È vero che non ci sono le mostruose “new town” di Berlusconi ma è anche vero che, in sostanza, c’è l’immobilismo più completo. E i riflettori, quelli veri, quelli che tengono accesa l’attenzione dell’opinione pubblica, si stanno gradualmente spegnendo. Il rischio è che cali presto l’oblio e che i problemi non vengano più risolti, creando un’enorme zona deserta nel cuore del centro Italia.

Luca Craia